Recensione del volume “Il mio credo. Ricerca, esperienze, valori”

Riflessioni e proposte

Gianfranco Bandini

Ho apprezzato il volume Il mio credo fin dalle prime pagine: la bellissima prefazione di Duccio Demetrio, le toccanti parole della curatrice Stefanie Risse e poi la lettura dell’indice, un insieme di storie di vita che avevo voglia di conoscere fino in fondo.

Ci sono libri utili, altri libri inutili (come tutti sappiamo), e ci sono libri indispensabili. Ebbene, Il mio credo fa proprio parte di questo gruppo: un gruppo limitato di testi che forniscono a chi legge una marcata spinta al pensiero, al ragionamento, alla riflessione.

Il titolo del volume rimanda, nell’ambito linguistico italiano, alla comune accezione che proviene dalla fede nella religione cattolica e nei suoi dogmi, la Santissima Trinità, la risurrezione della carne, la presenza eterna e infinita di Dio, ecc. In realtà, anche se la maggioranza dei libri in lingua italiana che contengono nel titolo “Il mio credo” è di carattere teologico e devozionale, questo testo non è così.

È il sottotitolo che ci dice con chiarezza cosa si intende fare con questo volume collaborativo, che nasce dall’esperienza pluriennale – veramente meritoria – del Circolo di Scrittura a distanza della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Il sottotitolo, infatti (Ricerca, esperienze, valori), ci introduce al concetto chiave, decisamente meno noto e diffuso. L’idea di fondo del volume del circolo di scrittura è che tutti gli esseri umani, nessuno escluso, sono accomunati da credenze, da aspirazioni ideali, da prospettive etiche. Queste credenze differiscono molto fra di loro, sia nel campo della credenza religiosa che in quello degli atei, cioè dei non credenti in entità soprannaturali e metafisiche, ma in prospettive di vita umanamente fondate e naturalistiche.

Le storie di vita qui raccolte, con questo prezioso approccio autobiografico e riflessivo, ci consentono di apprezzare il grande ventaglio di opzioni di fronte alle fondamentali domande esistenziali che qualsiasi persona, prima o poi, si pone. Non solo: questi racconti di sé ci parlano anche degli archi di trasformazione della credenza, dei passaggi che portano alla conversione oppure alla deconversione. Esistono veramente pochissimi esempi di libri che raccolgono questa varietà di posizioni di vita, esposte con la semplicità e la profondità di un dialogo tra amici. Probabilmente il più vicino è il volume a quattro mani di Pierluigi Di Piazza e Margherita Hack, Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete (2012), dal forte taglio autobiografico.

Bisogna notare che la persistente stigmatizzazione sociale che accompagna da secoli coloro che non si allineano alla religione prevalente continua a pesare ancora oggi. Ed è per questo motivo che il volume ha un valore notevolissimo: la lettura, la riflessione, il confronto con la varietà delle risposte all’angoscia esistenziale hanno un forte valore formativo e di auto-formazione.

Ampliando lo sguardo possiamo dire che è certamente un obiettivo del sistema di istruzione: tra i suoi obiettivi c’è anche il fondamentale compito di accompagnare e sostenere l’autonomo sviluppo dell’identità personale dei suoi studenti. Purtroppo l’impostazione normativa che proviene dalla revisione del Concordato (Accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, 18 febbraio 1984) si è tradotta in una sostanziale delega delle questioni religiose a una materia scolastica marcatamente confessionale, insegnata da docenti che sono scelte in base alla loro fede e moralità, rinnovate di anno in anno attraverso la concessione dell’idoneità da parte del vescovo diocesano competente territorialmente. Questa impostazione, non solo in Italia, inizia a scricchiolare e a presentare evidenti problematicità nel contesto della società europea, multiculturale, multireligiosa e con una presenza significativa di persone atee, anche in forme organizzate.

In effetti, sarebbe possibile introdurre nella scuola (e qualche insegnante in realtà lo fa) degli elementi di riflessione sui problemi esistenziali, ribaltando la nostra tradizionale e secolare procedura: ossia non partire dalla religione, ma dalle questioni esistenziali, dalle profonde questioni che assillano l’uomo alla ricerca del significato della vita, sia personale che comunitario. Se facessimo così, le religioni (e quindi non solo una specifica confessione religiosa) risulterebbero per quello che sono nella realtà dei fatti, cioè dei tentativi di risposta ad un fascio di questioni esistenziali tipicamente e nativamente umane. Non solo: sarebbe fondamentale, come giustamente fa questo volume, presentare le varie posizioni di vita, anche quelle dei non credenti che, in realtà, possono avere una forte spiritualità, seppur non declinata nelle modalità tipicamente confessionali.

Si tratta di un punto di particolare importanza sul quale merita soffermarsi. In questo caso ci aiuta il riferimento a una dimensione teorica che in campo educativo è stata esplorata in maniera molto interessante e “profetica”, potremmo dire, da John Dewey. Ricordiamo brevemente che Dewey fu tra i firmatari del primo Manifesto Humanist nel 1933, insieme a una trentina di accademici e intellettuali: le quindici proposizioni che lo componevano miravano a promuovere una nuova visione del mondo fondata sulla ragione, sulla scienza e sull’umanesimo, in aperta (ma cauta) sfida delle tradizionali credenze religiose e filosofiche. Proprio nell’anno accademico 1933-34 viene invitato a Yale per prendere parte a The Dwight H. Terry Lectureship: queste lezioni saranno pubblicate nel 1934 nel volume A Common Faith (Una fede comune, tradotto in italiano molti anni dopo, nel 1957, da Guido Calogero). È proprio in questo volume che Dewey effettua una distinzione categoriale molto chiara tra le religioni e la religiosità. Le prime sono varie e numerose, così come sono vari e numerosi i dogmi delle religioni; ciò conduce all’impossibilità di fondare una visione comune, se non attenuando forzatamente alcune questioni e lasciando da parte il desiderio di ogni religione di considerarsi l’unica vera e salvifica. Dall’altro lato, invece, c’è quella che chiama “religiosità umanistica”, cioè quell’aspirazione all’azione e al pensiero che si muove verso un ideale, lo configura, lo persegue in modo che sia massimizzata la condizione di benessere del singolo uomo, della comunità, dell’umanità. L’educazione ha una sola via: “la via della paziente e collettiva ricerca, che procede con gli strumenti dell’osservazione, dell’esperimento, della registrazione e della riflessione controllata” (pagina 35). È una religiosità razionale che ricalca quanto aveva detto anni prima in maniera molto chiara Bertrand Russell, in particolare nel volume Free Man’sWorship (1903).

Nell’ambito della cultura italiana questa distinzione non è stata molto apprezzata, anche se bisogna notare l’importante e originale contributo di Duccio Demetrio che, con il volume La religiosità della terra, si pone proprio nell’orizzonte teorico e discorsivo di Dewey. Merita riportare le parole della quarta di copertina:

“La religiosità della terra non è una devozione neopagana e nemmeno un culto. È un modo di sentire umano tra i più immediati e istintivi. È meraviglia, commozione, sgomento, dinanzi alla natura e al suo manifestarsi in forme molteplici e discordanti: bellezza sublime, supremazia, indifferenza. Sia il credente sia il non credente, dinanzi alla natura, non possono che provare identiche emozioni. Per questo oggi è necessaria una comune fede civile, un’alleanza feconda nella custodia del mondo, tra tutti coloro che intendono opporsi alle aggressioni, alle negligenze, ai saccheggi indiscriminati contro la nostra terra che, da madre, si rivela sempre più figlia.”

In conclusione, vi invito a leggere con attenzione questo volume e a fare una piccola e umile operazione manuale, cioè segnarvi di volta in volta i passaggi sui quali poter riflettere con calma, magari insieme ad altre persone. Auspico che questo testo possa trovare spazio nei contesti formativi e educativi, dove potrà dimostrare concretamente come l’esercizio del pensiero critico non sia un’attività sterile e triste, bensì un elemento fondamentale che arricchisce e definisce la nostra essenza umana.